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The Last Guardian – Recensione

Anche se con una generazione di ritardo, The Last Guardian, terzo gioco di Fumito Ueda, è finalmente tra noi. L’attesa è davvero valsa la pena? Vediamolo insieme.

Una settimana dopo Final Fantasy XV, un altro dei videogiochi che sembrava non sarebbero mai usciti è finalmente tra noi. The Last Guardian è finalmente arrivato a porre fine all’assenza del Team ICO che durava da oltre 10 anni, studio che peraltro non è nemmeno sopravvissuto a uno sviluppo così lungo.

Il logo di Gen Design, nuova casa di Fumito Ueda, ci dà il benvenuto prima del logo iniziale per ricordarci che siamo alla fine di un’era, ma anche per celebrare che, nonostante i problemi, il creativo giapponese e Sony hanno collaborato fino all’ultimo momento per portare avanti questo progetto.

The Last Guardian

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Per questo risulta un po’ ardua valutare un videogioco che ne ha passate tante, da ritardi a limbi, accumulando anni di aspettative e un salto generazionale di mezzo. Ma alla fine, anche se questo tipo di eventi non è la norma, The Last Guardian è ancora ciò che pretendeva di essere: il videogioco che parla di un bambino e l’enorme creatura mitologica che ha come mascotte.

A grandi tratti, il videogioco può essere definito come un misto dei precedenti videogiochi dell’autore, ICO e Shadow of the Colossus. Lo stesso Ueda ha parlato di questo parallelismo con un disco di grandi successi anche se, evidentemente, qui le idee non sono come canzoni che si ripetono, ma si evolvono e compongono pezzi nuovi.

Il punto di inizio ci mette nei panni di un bambino che deve farsi strada attraverso le rovine di un mondo misterioso con l’aiuto di un compagno alla ricerca della libertà. La principale novità è che la giovane Yorda è sostituita da Trico, un gigantesco animale che, come colosso, ha una grande innocenza e mancanza di raziocinio (nel senso umano) inversamente proporzionale alla sua capacità distruttiva e abilità di movimento. Fondendo i due concetti si aprono molte possibilità in tutte le direzioni, spingendo The Last Guardian verso territori che nemmeno il Team ICO, e quindi anche il giocatore, avrebbe esplorato prima.

Problemi in paradiso

Conoscere la storia di Fumito Ueda e del Team ICO è sapere che fin dagli albori questo team è stato formato da gente che spiccava maggiormente nel reparto artistico che nel tecnico. È un altro modo di dire che il loro obiettivo è sempre stato prima immaginare un’esperienza e poi capire come la tecnologia potrebbe dare una forma giocabile a quella visione, a volte spingendola verso soluzioni che team maggiormente efficienti non hanno implementato finché loro non hanno mostrato il sentiero. Tutti i loro giochi hanno subito problemi di una certa importanza per via di questo, con ritardi e cambiamenti rilevanti a metà sviluppo. Ma una volta lanciati, sono riusciti a permanere nella memoria collettiva (anche di quella dei giocatori che non ne sono rimasti entusiasti) per potenziare quell’abilità di pensare fuori dagli schemi.

Fare un gioco divertente da giocare, ma allo stesso tempo che non sia come gli altri giochi divertenti da giocare. È una filosofia lodevole anche se, come The Last Guardian ha dimostrato, era destinata a giocare un brutto scherzo prima o poi. Perché anche se l’idea di fondete ICO e Shadow of the Colossus appariva romantica e piena di possibilità, in pratica ha anche generato problemi che quei videogiochi non hanno dovuto affrontare.

The Last Guardian

L’esempio più lampante lo troviamo nella telecamera, elemento che normalmente è meglio quando si nota meno, ma che diventa uno dei primi candidati a soffrire per questa collisione di idee. I precedenti giochi disponevano di una telecamera comandabile con lo stick di destra, ma mentre ICO la incastrava in posizioni predefinite per seguire l’azione senza creare attriti coi muri del castello, il campo aperto di SOTC riusciva a far sì che il giro di 360 gradi funzionasse quasi sempre. Nel ritorno a un’abbondanza di spazi chiusi, The Last Guardian potrebbe aver scelto il primo sistema, o alternarli in base alla posizione, ma introducendo un’esplorazione spaziale più ampia (con frequenza verticale) per mano di Trico richiede una maggior libertà per osservare l’ambiente e localizzare il seguente obiettivo. Anche se in generale funziona a dovere, residui di questo conflitto permangono nel gioco e possono dare adito a scomodità durante scene di combattimento e/o in spazi angusti se non aggiustiamo in modo manuale la telecamera o il personaggio (motivo per cui aumentare la sensibilità nelle impostazioni più essere una buona idea).

Trico: Dalla carta allo schermo

Anche se senza dubbio il nucleo, e sicuramente prodotto dei maggiori rompicapo dello studio di sviluppo durante questi anni, è lo stesso Trico. Se c’era un aspetto che doveva funzionare per sposare le due proposte era proprio lui. Nonostante (o proprio precisamente) perché domina l’epica come pochi, Ueda non si è contraddistinto per discorsi innecessari, quindi dà il via con illustrazioni che introducono Trico in modo che, a livello subliminale, lo associamo a altri esseri mitologici come unicorni o ippogrifi. Creature che ovviamente non esistono, ma la cui presenza nei videogiochi, cinema e altri mezzi normalizziamo istantaneamente perché ormai sono parte integrante dell’immaginario collettivo. Ironicamente, il fatto che questo gioco abbia ritardato così tanto e la comparsa di Trico nel 2009 giocano a suo favore: anche se The Last Guardian non fosse mai stato lanciato, la maggior parte dei fan accaniti del settore avevamo l’immagine ben impressa in testa. Per quelli che aspettavano da anni il suo arrivo si verifica una sensazione strana alla prima presa di contatto, a metà tra la familiarità e l’incredulità, che nessuno sviluppatore potrebbe ottenere con le vie tradizionali. In verità sembra una vecchia leggenda che prende vita.

Ovviamente questo è solo l’inizio, il primo passo di un processo piuttosto lungo che ancora deve curare tutti gli altri per mantenere l’illusione. O crearla se si parte da un maggior scetticismo. In fin dei conti, sappiamo tutti che davanti abbiamo solo poligoni, allo stesso modo in cui sappiamo che durante uno spettacolo di magia nessuno viene tagliato a metà, ma questo non deve impedirci di goderci il trucco. L’animazione, gli effetti sonori e persino la telecamera (anche se a volte dà problemi, sa bene come focalizzarsi sul nostro compagno, e può essere centrata premendo L1) sono pezzi minuziosamente lavorati per creare un’avventura emotiva che trascorre in modo parallelo a quella fisica attraverso gli scenari. Dal terrore iniziale, quando è ferito e affamato, fino alla conclusione, la relazione tra Trico e il ragazzo è una montagna russa con momenti di tensione, tenerezza, incertezza e umorismo. Alla fine del viaggio, il vincolo viene percepito come reale non solo per via delle magie tecniche utilizzate per portarlo alla vita sullo schermo, ma anche per l’ingente quantità di situazioni (a volte prefissate, altre spontanee) che t’invitano a dimenticare che questo misto tra cane, gatto e aquila non esisteva fuori dalla mente di Fumito Ueda fino a pochissimo tempo fa.

The Last Guardian

Questo comunque non toglie importanza al lavoro sul comparto tecnico, che è invece importantissimo. Sebbene a livello visivo il gioco presenti alcuni alti e alcuni bassi, è capace di sorprendere con paesaggi mozzafiato e a volte ci ricorda il passato con elementi che sembrano ereditati dalla tappa di sviluppo su PS3 (peccato che in ogni caso non si liberi di alcuni problemi di framerate), la riproduzione della creatura è inattaccabile. Di fronte alla semplicità del ragazzo, Trico è un prodigio che quando appare a schermo praticamente impedisce di concentrarsi su qualsiasi altra cosa che non sia lui grazie a centinaia di piume che reagiscono separatamente alle sue mosse o al vento, un linguaggio corporeo che esprime alla perfezione le sue intenzioni (o dubbi) in ogni momento e numerose accortezze come i cambiamenti nelle pupille o il comportamento individuale delle orecchie, che si riorientano in base ai suoni, stato d’animo e lo scontro con elementi dello scenario. Varie ore dopo aver cominciato l’avventura continua a sorprendere con nuovi dettagli e routine di comportamento, cosa che può essere persino estesa a una seconda partita.

Anche se non sapremo mai che livello avrebbe raggiunto lo studio su PlayStation 3, è chiaro che se qualcuno ha tratto beneficio dal cambio di piattaforma è proprio Trico, capace di portare la relazione tra Ico e Yorda su un terreno ancora più universale. Se quella era un’amicizia basata sulla mutua necessità, che non conosce barriere linguistiche, qui siamo di fronte a qualcosa di più naturale. Come giocatori è facile indossare i panni del bambino, capire le sue motivazioni e il suo processo mentale per raggiungere gli obbiettivi che si pone, proprio come accadeva con Ico o con la principessa nonostante il vago background. Ciò nonostante, nel caso di Trico si aggiunge un velo più spesso di simpatia. Anche se è enorme e un’autentica forza della natura quando la situazione glielo impone, proprio come un animale possiede anche la più pura innocenza. Non processa il mondo che lo circonda come lo facciamo noi, quindi non riusciamo a non rimanere dispiaciuti nel notare la sua sofferenza quando il ragazzo imbocca in sentiero per lui inaccessibile: laddove Yorda aspettava semplicemente che Ico aprisse strada prima di tornare a prenderla, Trico non riesce a capire questa metodologia e pensa che forse abbiamo deciso di abbandonarlo.

The Last Guardian

Uno dei maggiori lampi di genio di The Last Guardian è che fa uso di questa fragilità per creare un senso istintivo di protezione nel giocatore e aumentare la connessione con Trico su una base solida come i muri delle torri che percorriamo insieme a lui, per poi, in perfetto stile Team ICO, ottenuto il risultato desiderato ci porta fuori dalla zona di comfort è fa una piccola svolta verso una tonalità più oscura. È qualcosa su cui ovviamente non entreremo in dettagli qui, ma se avete giocato a ICO o SOTC saprete che i finali non lasciano nessuno indifferente, diventando quindi un pezzo fondamentale per valutare l’esperienza nel complesso. Nonostante gli anni e i problemi di sviluppo, Ueda non ha perso la capacità di creare un’opera d’autore, fattore che riesce a segnare la differenza rispetto alle sue opere precedenti e verso quelle di altri studi. È la definizione dello spirito indie trasportato su un progetto di scala maggiore, che dà luogo a un risultato così personale quanto potenzialmente problematico quando si cerca di accontentare tutto il pubblico. Cosa non fatta da ICO e nemmeno da SOTC e che quasi sicuramente si ripeterà con The Last Guardian.

L’amicizia in The Last Guardian

E finora abbiamo parlato solo della parte più emotiva, ma ovviamente non varrebbe niente se la meccanica non tenesse tutto in piedi. Il gioco in sé, ciò che facciamo e non ciò che sentiamo, anche se le due cose sono strettamente collegate. Come videogioco incentrato sulle peripezie di due personaggi così diversi, possiamo anche creare due grandi blocchi per una maggior comodità nella spiegazione. Il primo sarebbe relativo al bambino, che in fin dei conti è quello che controlliamo direttamente con il controller. Tramite un controllo simile a quello dei giochi precedenti, questo giovanotto da nome sconosciuto può saltare, scalare, trascinare oggetti, spingere blocchi e altre azioni orientate a permettere a lui e al suo compagno di avventura di procedere. In linea generale, questo significa inseguire tre tipi diversi di obiettivo: raggiungere interruttori che aprono le porte che l’animale non può attraversare per conto proprio, portare barili che servono ad alimentare per permettergli di recuperare energia o rompere vetri a forma d’occhio che lo terrorizzano e lo paralizzano sul posto. È semplice, ma come sempre in questi casi, dopo il design degli scenari pensa a introdurre le variazioni necessarie per non renderlo monotono.

Anche se, senza dubbio, la parte più interessante è quella relativa a Trico. Non possiamo controllarlo direttamente, ma una volta ottenuta la sua fiducia, questa candida creatura ci insegue come un cane dovunque noi andiamo, svolgendo diverse funzioni come lo stesso bimbo. Per cominciare, la situazione di Ico e Yorda riguardo ai nemici è invertita, dato che qui il ragazzo non ha alcun tipo di arma (se non uno scudo che invoca un raggio dalla coda di Trico, ma è disponibile solo per un breve lasso di tempo nel gioco). Come accadeva in ICO, non c’è una barra della salute che misuri il danno che possiamo ricevere, ma la partita finisce se delle statue viventi ci rinchiudono dietro a porte speciali. Per evitarlo, oltre a premere compulsivamente i pulsanti per liberarci dalla loro presa, dobbiamo accertarci che Trico sia vicino per difenderci, cosa a volte non possibile a meno che non realizziamo prima qualcuna delle azioni precedentemente spiegate (aprire porte, rompere vetri/occhio).

The Last Guardian

È un curioso giro di boa al concetto dei combattimenti, dato che il giocatore fa la parte del classico cliché della damigella nei guai che occorre salvare ad ogni passo. Come scommessa può sembrare un po’ rischiosa, perché il fatto è che svolgiamo un ruolo molto più passivo rispetto a qualsiasi altro gioco con combattimenti, persino gli anteriori giochi del Team ICO. Ma lo studio ha il riguardo di dosare molto questi scontri (sia come frequenza che come durata) e aggiungere anche azioni da svolgere mentre il nostro compagno distrugge i nemici: alcune delle statue usano lance da cui dobbiamo liberarlo per non far peggiorare le ferite e altre portano scudi coi vetri che paralizzano Trico, lasciandolo indifeso a meno che non li carichiamo per farli cadere al suolo. Inoltre, ogni combattimento conclude con la necessità di salire sul nostro compagno e accarezzarlo e alleviare la tensione accumulata durante lo scontro. Anche questo è un metodo usato da The Last Guardian per rafforzare il vincolo, creando un forte contrasto tra il nervosismo che produce vederci in pericolo e la sua calma quando si rende conto che siamo nuovamente soli.

I combattimento però non rappresentano nemmeno la metà dell’utilità di Trico, che funziona più spesso come scala verso piani rialzati, trasporto per raggiungere zone in altri modo inaccessibili o persino come assicurazione sulla vita quando alcuni fasi platform diventano complicate. A inizio gioco il livello di interazione controllato da noi si limita solo a chiamarlo e salire sul suo corpo in modo simile a quanto avveniva in SOTC (oltre al già citato scudo magico, la cui presenza è controllata dallo sviluppo della trama). A partire da lì, dipendiamo da quanto Trico riesce a dedurre sulla prossima azione da fare in base al contesto, il che di solito non rappresenta alcun problema perché in questo momento sono cose semplici e ovvi, come saltare verso l’unico posto in cui è possibile andare avanti. Ma una volta superato approssimativamente il quarto di gioco, la trama ricorre a questo vincolo che si comincia a creare tra di noi per introdurre un sistema di comandi più preciso, che permette di dare indicazioni come saltare, colpire oggetti o avanzare in una determinata direzione.

Questo, oltre a dar luogo a momenti stupefacenti in cui Trico osserva con genuina curiosità le mosse del ragazzo, apre le porte ad un aumento della complessità dell’esplorazione spaziale, e allo stesso tempo permette un maggior controllo sull’avanzamento. Cosa che, naturalmente, risulta maggiormente soddisfacente anche se qualche rara volta la difficoltà diminuisce drasticamente. Ciò nonostante, il “fattore animale” di Trico non scompare e, anche se è sempre stato ai nostri comandi, non perde un certo livello di autonomia e di imprevedibilità. Qui risiede infatti uno dei maggiori punti di forza e allo stesso tempo difetti di The Last Guardian, che non dubita a compromettere la giocabilità diretta per dimostrare che Trico ha una propria coscienza e, forse più importante, il suo ragionamento non deve per forza coincidere con il nostro. A volte prende l’iniziativa e si dirige verso l’uscita perché la individua per conto suo anche se non ci siamo ancora andati e nemmeno abbiamo puntato la telecamera verso di essa. Altre volte, al contrario, può rimanere fermo allo stesso posto vari secondi, guardando verso il ragazzo con il muso confuso, come se non capisse cosa vogliono dire quei gesti.

Quando queste situazioni sfociano in situazioni frustranti è facile dare la colpa all’intelligenza artificiale, un territorio più complicato da dominare rispetto ad altri aspetti tecnici e che a volte può presentare qualche falla. Ma la cosa certa è che creare una IA che superi ogni situazione al primo tentativo senza esitare è più facile che introdurre il dubbio come variabile. Qualsiasi gioco potrebbe avere nemici in grado di sconfiggerci sempre, quindi renderli più “scemi” (limitare le risposte per lasciare opportunità d’azione al giocatore) è parte del processo necessario per creare curve di difficoltà. Trico funziona in modo simile, solo che inverso: essendo lento, e non infallibile, sommerge il giocatore in una specie di negoziazione con l’IA che a volte dobbiamo addomesticare (o lei deve farlo con noi) per ottenere la resa migliore. Questo passa dall’osservare attentamente il nostro compagno, capire qual è la sua soglia d’attenzione e dare comandi chiari, lasciando il tempo necessario per interpretarle e metterle in pratica prima di insistere e sovraccaricare la sua capacità di processo, il che ritarderebbe ulteriormente l’azione desiderata. Una seconda partita lo chiarisce maggiormente, dato che tutto fluisce meglio perché abbiamo assimilato il processo.

The Last Guardian

È un processo da prendere con calma e non aspettare risposte immediate, un tipo di design con un grande potenziale conflittuale dato che va contro quello che di solito si cerca in un videogioco. Quando abbiamo un controller in mano di solito si pretende che il tasto X produca un risultato appena lo si preme, e non vari secondi dopo. È una cosa che gli studi di sviluppo di solito tengono in considerazione anche se a volte implica qualche libertà per quanto riguarda le leggi della fisica. Un esempio, sottile ma evidente, lo troviamo nel salto del ragazzo di questo gioco stesso: a riposo si accuccia per prendersi il necessario impulso con le ginocchia, ma in corsa si separa istantaneamente da terra perché in caso contrario saltare precipizi non sarebbe così intuitivo per un giocatore. Lo sviluppatore è, quindi, chi decide in ogni momento dove cedere alla ricerca di una maggior comodità e dove mantenersi fedele alla realtà, anche se risulta sconveniente. Trico, in quanto creatura nata da questa seconda mentalità, è destinato a creare problemi e divisioni di opinioni. A volte per errori e limitazioni dell’IA. Ma tante altre, la maggior parte, solo perché Ueda e il suo team volevano mostrare l’imperfezione che esprime l’autenticità della vita.

The Last Guardian: Un gioco moderno per tempi moderni

Nonostante si cinga a una visione così personale e abbia origine nel decennio passato, la versione finale di The Last Guardian che abbiamo ricevuto è un gioco del 2016, e si vede. Al di là del grande salto grafico rispetto a ICO e SOTC, il videogioco adotta altre influenze contemporanee, come la sostituzione del sistema di salvataggio per punti di controllo che registrano i nostri progressi automaticamente ogni tanto. Come in qualsiasi altro gioco, questo ha i suoi vantaggi e svantaggi: da una parte, il team può aumentare la difficoltà di alcune sezioni senza far aumentare la frustrazione da fallimento in modo proporzionale, ma d’altra parte, a volte si rischia di finire al esatto opposto e trovarci con una penalità triviale perché il punto di salvataggio era a 10 metri dal punto della nostra morte. In ogni caso, dal momento che The Last Guardian è un gioco più orientato a pensare che a essere abili col controller non suppone un impatto troppo forte oltre a favorire uno sviluppo più lineare.

SOTC era un caso a parte a causa della sua struttura atipica, ma ICO ci invitava a usare i punti di salvataggio contando su un itinerario che spesso ci costringeva a tornare sui nostri passi, cosa che in The Last Guardian succede appena. Qualche volta il gioco ci riporta in zone già visitate precedentemente, ma cerca il modo di farlo portandoci avanti. Parte del motivo, o forse tutto, sta nelle dimensioni di Trico e nelle sue capacità di salto, che riduce l’attrattiva di un backtracking a piedi. Lo studio ne approfitta e passa dal castello compatto di ICO al Nido, una gigantesca valle in cui si trovano numerose strutture e torri n gran parte indipendenti. Questo, oltre che per avere viste spettacolari ogni volta che usciamo all’esterno, serve a permettere al gioco di integrare una serie di sezioni (o “set pieces”) in cui si attiva un evento accuratamente coreografico, alcune cose saltano in aria, e finiamo in un altro posto senza la possibilità di tornare indietro a meno che il gioco non decida di riportarci più avanti da un altro percorso.

The Last Guardian

Il nome Naughty Dog si è sentito varie volte in alcune interviste a Ueda, e non occorre fare molti giri per vedere un’ispirazione chiara del loro lavoro in queste sezioni. Le similitudini con la saga di Uncharted in alcuni punti sono tali da quasi dimenticare che siamo davanti a un gioco del Team ICO. Positivo è che queste piccole “intromissioni”, anche se possono preoccupare i non amanti delle avventure di Nathan Drake, riescono a incastrarsi abbastanza bene in The Last Guardian, perché adempiono a vari scopi. Il primo, già citato, è proporre un metodo rapido per collegare le zone. Il secondo, farlo con uno spettacolo audiovisivo (anche la colonna sonora fa bella mostra di sé) che dimostra quanto Ueda sia versatile e sa muoversi in questi ambienti se decide di farlo. E il terzo, offrire un contrasto ai momenti più calmi, che continuano a rappresentare la maggior parte del gioco, e che qui beneficiano più che mai di alcune piccole distrazioni dato che si tratta dello sviluppo più lungo tra i titoli creati dal team ICO (la prima partita può raggiungere o anche superare facilmente le 10 ore.

Il diavolo sta nei dettagli

Ma, nonostante le numerose bontà, una cosa che The Last Guardian non riesce a far bene come il recente Uncharted 4 è applicare quel velo finale di rifiniture. Il nostro protagonista tende a muoversi e a interagire con l’ambiente con una sorprendente grazia e naturalità, reagendo a ostacoli, inciampando, appoggiando le mani in diversi luoghi o cadendo a terra nei bruchi cambiamenti di direzione. Il risultato è una combinazione tra animazioni create a mano e uso di cinematiche inverse che ha già dato buoni risultati al Team ICO in passato. Ora si spinge un po’ più in là ma, anche se il livello generale è parecchio alto, ogni tanto dà luogo a situazioni in cui il motore della fisica reagisce in modo strano e crea posizioni forzate nel nostro protagonista, come se le braccia diventassero di gomma quando pendono da alcune superfici. Dura appena un secondo, il tempo di cui il corpo ha bisogno per adeguarsi alla posizione corretta e, come il clipping dei vestiti, è più un inconveniente estetico che altro. Ma data la cura dei dettagli di cui ha sempre fatto vanto lo studio, è una cosa che richiama l’attenzione.

Anche se possono esserci altri fattori che contribuiscono a questo curioso effetto, uno dei possibili fattori è l’abbandono del tasto per stare aggrappato. In SOTC, R1 veniva usato per decidere manualmente se aggrapparsi o lasciare la presa sui giganti, o di ogni tipo di ripiano. In The Last Guardian quel sistema è stato modificato, forse per evitare al giocatore di dover premere fino a tre tasti contemporaneamente per dare ordini in alcune situazioni. Il risultato è una presa che fa diventare le mani del ragazzo una specie di calamita che si attiva automaticamente entrando nello spazio di interazione con il piumaggio di Trico o dei diversi punti di presa. E in teoria non ha motivo di essere un problema, e la maggior parte delle volte non lo è, perché tenendo premuto X possiamo mollare la presa. Ma anche se con un tasto si può porre fine alla scalata, non si riesce ad avere la stessa sensazione di controllo sulla stessa, e alla lunga provoca qualche reazione indesiderata quando vogliamo scendere da un corpo più irregolare (e in continuo movimento) come quello di Trico.

Sono dettagli, ma quando uno studio di sforza tanto e riesce a fare alcune cose realmente bene, le cose che non sono allo stesso livello sono quelle che spiccano maggiormente. Un altro esempio sono le parti acquatiche, che offrono varietà e un nuovo modo di usare Trico, ma che non resistono a intorbidire l’esperienza con controlli subacquei poco naturali (per fortuna la presenza è pressappoco aneddotica). E la presentazione minimalista, senza interfaccia, si interrompe con abbondanti messaggi di aiuto che si susseguono fino alla fine del gioco (è assurdo che ti ricordino come spingere un blocco otto ore dopo aver iniziato, e sarebbe bene che eliminassero alcune di queste cose con gli aggiornamenti. La parte positiva è che alla fine, quando arriva il momento dei titoli di coda o espellere il disco dalla console, non saranno questi i momenti che ricorderemo maggiormente. È come trovare una riga nel vetro di una finestra da cui vediamo un bel giardino: può darsi che qualche volta ti distragga e ti concentri su di essa, ma quando sposti la cista continua ad esserci un bel paesaggio dall’altra parte.

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Conclusione

Fumito Ueda non è uno sviluppatore convenzionale. Lo ha dimostrato con ICO, consolidato con Shadow of the Colossus e lo conferma con The Last Guardian. Anche se parte da un misto di concetti già usati, il risultato è un videogioco unico a modo suo, che usa la tecnologia per superare nuove frontiere nell’interazione con un personaggio che non esiste fuori dalle nostre console. Purtroppo questa sperimentazione ha un costo, infatti, nonostante il salto generazionale, lo studio e la macchina stessa non sono sempre capaci di seguire il ritmo delle idee, impedendo quindi loro di brillare come potrebbero. La resa presenta sempre qualche irregolarità anche dopo le patch rilasciate al lancio (speriamo migliorino in futuro senza il bisogno di PS4 Pro). Il sistema di collisioni può creare strani effetti nelle interazioni con l’ambiente o con lo stesso Trico e la telecamera soffre qualche lapsus. È un gioiello che non è stato pulito come avremmo voluto, il che, unito al comportamento del nostro compagno, proposto come un animale e non una semplice meccanica risolvi problemi, fanno sì che The Last Guardian non sia un gioco adatto a tutti.

Fortunatamente, come già successo a suo tempo con ICO e SOTC, molti altri giocatori saranno in grado di passare sopra a questo grazie alla creatività, buon design e effettività emozionale che il Team ICO ha portato sullo schermo. Il mondo sprizza quella classe da sogno che praticamente nessun altro studio può replicare, e i momenti teneri collegano a un livello primario quelli che sono disposti a lasciarsi cullare dall’immaginazione di Ueda. The Last Guardian è una favola virtuale che ci invita a mettere piede sul freno di un’industria che salta di superproduzione in superproduzione come se non ci fosse un domani. Vuole farci correre sull’erba, che accarezziamo la schiena del nostro compagno e che perdiamo alcuni istanti a guardare lontano, chiedendoci cosa ci aspetta in quelle lontane torri che si vedono all’orizzonte, o come faremo ad arrivarci. Può darsi che l’avventura di Trico e del suo piccolo amico non sia perfetta, ma di sicuro ci vorrà un po’ per dimenticarla. Anche più di quanto ce n’è voluto a metterci le mani sopra. Ed è tutto un dire.

The Last Guardian

29,98 €
9

Giocabilità

9.0/10

Grafica

9.0/10

Sonoro

9.0/10

Pro

  • Trico, uno dei maggiori successi di Ueda, sia a livello tecnico che emotivo.
  • Il mondo di gioco ha intatto il tocco del Team ICO per quanto riguarda narrativa, visuale e design.
  • La colonna sonora di altissimo livello.
  • Set Pieces in stile Uncharted che ravvivano il gioco.
  • Più longevo dei predecessori (può superare le 10 ore).

Contro

  • La IA di trico a volte fallisce.
  • Tecnicamente danneggiato da problemi di framerate e collisioni.
  • La telecamera a colte non riesce a mostrare l'azione nel modo migliore.
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